Usi e costumi del popolo casertano nella descrizione di fine Ottocento di Enrico Laracca Ronghi

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Introduzione

La pregevole guida storica intitolata “Caserta e le sue reali letizie”, redatta con diligenza dal professor Enrico Laracca Ronghi (premiato con gran Medaglia d’argento dal Ministero della Pubblica Istruzione), costituisce senza dubbio, una fonte da cui attingere interessanti notizie sull’evoluzione storica e sociale della città di Caserta. Il volume stampato nell’anno 1898 a dire dell’onorevole Raffaele Leonetti (con lettera del 22 gennaio 1897): “oltre al valore d’interessantissime notizie, ha pure un alto valore morale per la Città di Caserta, troppo negletta, e trascurata, forse perché mal conosciuta”. L’affermazione dell’onorevole Leonetti, certamente non lascia inosservati sullo stato in cui riversa la città Capoluogo di provincia, una città che, all’interno del suo tessuto sociale, ed anche urbanistico – architettonico non è valorizzata a dovere, forse perché vive perennemente “all’ombra della reggia”.

 

I. Un popolo “lontano” da crimini e violenze

Il discorso intrapreso nella guida del prof. Enrico Laracca Ronghi, riguardante “Indole, usi e costumi” della popolazione casertana, ci da un’idea di come, all’epoca la gente di Caserta si presentava ai forestieri. Tra il popolo, vi era il merito “di rifuggire dai reati di sangue”. Raramente infatti, avveniva “qualche ferimento nelle borgate; rarissimo è(ra) il caso di qualche grave delitto”. Queste prime affermazioni da parte dell’illustre professore, descrivono un popolo tendenzialmente “lontano dai guai”, per niente litigioso poiché “esclude(va) la minima idea di supporre la tendenza all’arma insidiosa”, fatta eccezione dell’ “inevitabile ma scarso contingente de’ soliti capiscarichi e della gente rinnegata ad ogni bene, ma essenzialmente “il resto degli abitanti non da’(va) molestia di sorta alla pubblica sicurezza”. I furti erano poi quasi del tutto esclusi dalla statistica di tal genere, “tranne qualche ladro forestiero, che si azzarda(va) di farvi capolino, Caserta vive(va) a porte aperte”. Nella totalità reati di pertinenza penale, o criminale che siano, non potevano “addebitarsi al Casertano; anzi, al caso, rarissimo, di qualche triste azione, la cittadinanza, aborrendo il fatto, per giorni interi ne resta profondamente scossa”.

 

II. Uomini e donne

Le donne del popolo casertano, giovanette in particolar modo, avevano “la predilezione speciale del loro vivere; di maniera che manca il cappellino solo per misurarsi con le signorine, con le quali il più delle volte si confondono”. Le fanciulle, tra i loro interessi, avevano un’innata passione che le spingevano “all’arte della seta, nella quale riescono brave, e, mettendo su bottega, passano a marito”. Gli uomini che intraprendevano la carriera operaia si presentavano laboriosi e sobri, amanti della fatica, “come la famiglia; la ricreazione festiva, come il lusso della persona; e, esclusa questa debolezza, che lo insuperbisce un tantino, l’operaio Casertano è(ra) una buona pasta di figliuolo, facile ad essere educato”. La classe operaia casertana, seppur non del tutto scolarizzata, “parla(va) il dialetto che si avvicina(va) molto alla lingua nazionale, con buona maniera e con pronunzia chiara e scorrevole”.

 

III. Feste religiose e tradizioni popolari

In generale il popolo viveva da buon cattolico, devoto e fedele, fatta eccezione per qualche “donnicciuola schiava ancora delle superstizioni e dei pregiudizii”, essenzialmente però la gente evitava di “abbandonarsi ad ipocrisie di un eccessivo culto da strada; ama(va) le funzioni religiose, le luminarie, i fuochi d’artificio, ma con una certa serietà ed oculatezza”. Ad esempio, la festa del Patrono della città, san Sebastiano martire (20 gennaio) “passa(va) riservata nell’adorazione domestica”. Ogni rione poi, festeggiava il suo Santo protettore, “distinguendosi primieramente la festa di S. Anna, al cui patrocinio, con sentimento di commovente venerazione, è(ra) singolarmente devota l’intera Cittadinanza”. Avvenivano poi altri festeggiamenti: la festa della Madonna di Montevergine la cui chiesa è ancora oggi ubicata sul fondo di via San Carlo e che all’epoca era stata “istituita da poco in qua per cura lodevole del reverendo sacerdote Gennaro Santangelo e di una Commissione di notabili di quel rione, nella quale si ha un simulacro della festa di Piedigrotta di Napoli.” A Caserta centro erano inoltre festeggiati la Madonna delle Grazie “nelle vie Tanucci e Francavilla”, quella di San Giovanni Battista venerato presso la chiesa dell’omonima Arciconfraternita (piazza Duomo) e il Lunedì “in albis” i confratelli dell’Arciconfraternita del SS. Sacramento (chiesa del Redentore) portavano in processione la statua del Cristo Risorto. Oltre al centro cittadino, anche i casali casertani festeggiavano “più o meno pomposamente, il proprio Patrono, accorrendovi in gran folla i Casertani, i quali si divertono tra la più schietta e placida ospitalità”. Le feste pasquali risultavano essere sentite dal popolo di Caserta. Queste ultime consistevano “a costumanza di ogni altra città”, nelle tradizionali uscite che si svolgevano con scampagnate e passeggiate nel Lunedì “in albis”, “nei pressi del cimitero della Città, detta dei Cappuccini questa festa; il giorno appresso in quello di Casagiove, detta di Montecupo; il giovedì in vicinanza di quello di Casapulla, addimandata di Centopertose”.

 

IV. Politici “galantuomini”

La propaganda politica si svolgeva in maniera signorile ed onorevole, combattendo “con dignità pari ad accorgimento pratico”. Persino durante le votazioni “da gentiluomini, si scende(va) nella palestra dell’urna, e senza rancori, né vendette personali si ritorna(va) amici dopo l’esito della votazione”. La parte politica della cittadinanza, adorava sfrenarsi un po’ in più, certamente grazie alla posizione sociale ed economica che ricopriva, dato che amava “le riunioni e i trattenimenti serali”, mentre, nei “circoli e in famiglie private, si suona(va), si canta(va) e si balla(va)”.

 

V. Considerazioni finali

Al termine delle sue considerazioni, il prof. Enrico Laracca Ronghi affermava che Caserta aveva due pecche: “Il canto sguainato del lazzarone napolitano, che scimiotteggia(va) seralmente; lo strozzino di piazza, che rovina(va) la inesperta gioventù”. Per fortuna però questi due ambiti erano combattuti: il primo, “dal canto appassionato e melodioso delle crestaie”; il secondo, invece, “dalla potente concorrenza delle Casse Pubbliche con la mitezza de’ loro interessi e dal Monte di Pietà, testé istituito dal Banco di Napoli”.

 

Fonti bibliografiche

– Enrico Laracca Ronghi, Caserta e le sue Reali Delizie con cenni crono-storici sulla Campagna del Volturno, Caserta 1898.

 

(Enrico Laracca Ronghi in una fotografia dell’epoca)

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