I fotografi al servizio del governo Sabaudo, per il contrasto al brigantaggio nel Meridione

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La fotografia, nella Penisola, raggiunse il suo culmine nel periodo risorgimentale, quando, una folta schiera di fotografi, molti dei quali alle prime armi, si recavano presso i luoghi dove stavano o dove erano avvenute importanti battaglie che, in qualche modo, avrebbero contribuito all’unificazione nazionale. Nel Mezzogiorno, si può dire che la fotografia, si sviluppò nel contesto per lo più “criminale”, contemporaneamente al Brigantaggio. Come è noto infatti, negli anni successivi all’Unità italiana, non tutti, accettarono le novità che, a partire dal 1861, videro l’annessione di buona parte degli Stati italiani, al Regno di Sardegna dove regnava “trionfante” la dinastia sabauda, guidata dal I re d’Italia Vittorio Emanuele II di Savoia. La dura reazione, sfociata in quel fenomeno denominato “Brigantaggio”, sviluppatosi principalmente nei territori del Sud e, in parte anche nei territori dello Stato Pontificio, inasprì ancor di più i rapporti tra il nuovo governo sabaudo e noti personaggi che, spinti ancora dall’ amore verso la dinastia borbonica, si misero a capo di bande di briganti che, con atti criminali e violenti, infestavano le zone per lo più isolate del disteso ex Regno delle Due Sicilie. In queste bande entravano a far parte per lo più contadini, pastori, guardiaboschi e talvolta, militari “sbandati” che avevano fatto parte della Guardia Nazionale. Non solo uomini, ma anche donne coraggiose e valorose, entrarono a far parte di queste bande di briganti (tra le  più celebri ricordiamo la brigantessa Michelina Di Cesare).

Il nuovo governo italiano, per incutere terrore e per contrastare con ogni mezzo il Brigantaggio, pensò bene di affidarsi alla fotografia, ingaggiando tra i più importanti fotografi che operavano nel Meridione. Tra questi, un posto di rilievo lo ebbe senza alcun dubbio il celebre fotografo casertano Emanuele Giuseppe Russi, il quale contattato dal generale genovese Emilio Pallavicini, si recava tramite una carrozza ferroviaria messa a disposizione dalle forze militari, portando con se le ingombranti attrezzatture fotografiche, nei luoghi dove erano avvenuti importanti arresti di capi banda e briganti, molti dei quali violentemente trucidati dai militari piemontesi e, messi “in posa” per l’occasione, nonostante la loro morte. E’ il caso quest’ultimo, di Antonio Curcio di Aversa che, fucilato nel 1870, all’arrivo del fotografo di turno, il suo cadavere ripulito, venne posizionato con gli occhi aperti  su una sedia, mentre ai lati prendevano posto un militare (forse l’esecutore) e un prete che in volto gli puntava la Bibbia e un Crocifisso. Per non parlare poi, delle donne brigantesse che, una volta uccise, i loro corpi venivano denudati e quasi beffeggiati sia dai militari presenti che dagli stessi fotografi. Alcuni fotografi, e probabilmente anche lo stesso Russi, anche in privato si recavano nei luoghi dove risedevano le bande di briganti, desiderosi di ritrarre nei loro scatti le immagini di questi uomini. Inoltre, queste fotografie, erano strumenti indispensabili per le autorità militari, per poter identificare meglio i briganti. Gli stessi fotografi poi, a vantaggio delle forze militari impegnate nella lotta al brigantaggio, facevano pervenire ai giornali nazionali le foto dei briganti, in modo da diffondere la sconfitta dei briganti. La cosiddetta fotografia “criminale”, tra le altre cose, fruttò non poco denaro ai fotografi che, vendettero queste immagini principalmente agli amanti del genere folcloristico. I briganti però, non furono immortalati soltanto dalle macchine fotografiche degli italiani, ma, il fenomeno ebbe risonanza anche oltre alpe. Ad essere attirato dal fenomeno del brigantaggio, fu anche il fotografo francese Alphonse Bernaud che, nel corso dell’unificazione nazionale immortalò nei suoi scatti non pochi briganti sia vivi che morti, tanto da esporre la sua collezione di fotografie, presso l’atelier che aveva in via Toledo a Napoli.

L’attenzione del pubblico verso il Brigantaggio si accentuò grazie anche alle teorie dell’antropologo Cesare Lombroso, il quale, parlando del brigante, e di conseguenza di un individuo che compiva atti violenti, affermava che in realtà “il criminale è(ra) un essere atavistico che riproduce(va) sulla propria persona i feroci istinti dell’umanità primitiva e degli animali inferiori”. Addirittura, lo stesso Lombroso riusciva a riconoscere se un individuo poteva essere delinquente o meno, soltanto attraverso l’attenta e scrupolosa osservazione di alcuni lineamenti fisici, del cranio in particolare. La sete di ricerca nell’approfondimento dell’antropologia criminale, portò Cesare Lombroso ad entrare in possesso “illecito” di resti umani dei briganti che, una volta uccisi, venivano o bruciati dai compagni di banda, o, cosa ancor più macabra, i loro corpi venivano esposti pubblicamente da parte delle autorità militari, nei loro paesi di origine, proprio come monito e per dimostrare che pian piano si stava sradicando questo fenomeno. Lombroso, a tal proposito riuscì ad ottenere illegalmente le spoglie del celebre brigante di Sonnino (Latina), Antonio Gasbarrone. Una cosa che certamente susciterà sdegno e raccapriccio è il fatto che i crani che Lombroso usava come oggetto di studio, imbrattandoli talvolta con segni di matita, pare venissero usati dallo stesso anche come ferma carte.

Bibliografia

  • Marco Pizzo, Lo stivale di Garibaldi: il Risorgimento in fotografia, Mondadori 2010.

–     Antonio Ciano, I Savoia e il massacro del Sud, Grandmelò 1996.

–    Olindo Isernia, Terra di Lavoro e la sua storia: dodici contributi, Caserta 2010.

    –    Simona De Luna (a cura di), Per forza o per amore: brigantesse dell’Italia postunitaria, Marlin 2008.

(il fotografo casertano Emanuele Giuseppe Russi)

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