“Carne viva. Una saga italiana fra Otto e Novecento” di Nadia Verdile – La Recensione

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Si legge tutto d’un fiato l’ultimo libro di Nadia Verdile, Carne Viva, edito da Pacini Fazzi editore.
Una lettura che corre, fin dalle prime pagine, sul doppio binario della storia collettiva, da un lato, e di quella personale dall’altro. Un Molise di fine Ottocento, dai contorni descritti con la precisione di una indagine storica mai ostentata, fa da sfondo a una ricerca che appare da subito non solo il tentativo, da parte dell’autrice, di ricostruire la storia della propria famiglia, ma anche e soprattutto l’itinerario di una coscienza declinata al femminile all’interno di una società profondamente patriarcale. Una donna apre il romanzo, una donna lo chiude, come nel segno di una parentesi, all’interno della quale piano si dipana la storia del protagonista Umberto. Sua è la scena – impossibile non innamorarsene -, sue le scelte, suoi gli strumenti di comprensione che diventeranno, poi, chiavi di interpretazione costanti nel percorso del lettore: la musica come dàimon interiore, istinto e furore, che sa suonare senza saperla leggere; le scarpe, create e indossate, a segnare percorsi e possibilità pretese e negate; la scrittura che diventa presto memoria, facendosi costruttrice di senso e significato. Figlio di un padre musicista che non può riconoscerlo ma che non sa abbandonarlo, di una madre colta, giovane e bella, ma imprigionata in ruoli e obblighi sociali, che perderà ragione e identità senza di lui, sembra favorito da un destino che si rivelerà nient’altro che
il sentimento nella sua forma più pura: l’amore che dà libertà. Libertà che è cesura rispetto al mondo che lo circonda e che delimita il perimetro della ricerca che animerà incessantemente tutte le pagine del libro, fino a tradursi in azione. La descrizione degli spazi, dei luoghi, degli ambienti nei quali Umberto muoverà i passi della propria costruzione identitaria inaugurano una visione mimetica del paesaggio, nella quale il vuoto e la penuria esterna corrispondono alla rassegnazione interiore, alla diffidenza, alla rinuncia a qualunque forma di comprensione del mondo che caratterizza molti dei personaggi che popolano il racconto. Spazio come luogo fisico ma anche orizzonte mentale, come possibilità di esistenza e, allo stesso tempo, sua negazione. Umberto si muove all’interno di una dimensione concreta, reale – quella di Mafalda prima e Macchiagodena dopo – e al contempo parallela e immaginifica – l’America sognata e raggiunta, ma mai vissuta fino in fondo -, in un confronto costante e circolare tra il passato e il futuro. Il suo percorso, dalle origini lontane radicate nella difficile terra molisana della metà del XIX secolo, si evolverà lentamente portando con sé la forza di liberare coloro che quei luoghi abitano, rendendo così la chiave di comprensione del romanzo non più individuale ma collettiva. Lo scorrere delle pagine e l’evoluzione della storia dimostreranno quanto la frantumazione del sé in tanti rivoli di dolore e rassegnazione, avvenuta per secoli a seguito dello sfruttamento, della assenza di leggi, di diritti, di istruzione, potrà essere ricomposta dalle generazioni successive, a patto di percorrere a ritroso quella stessa storia in una presa di coscienza forzata e dolorosa che scopra le ferite rendendo visibile la carne viva. L’amore del protagonista per Concetta sembra segnare un secondo inizio per la storia.
Sulle scia delle note che hanno accompagnato anche l’incontro dei suoi genitori, Umberto sembra ripercorrere un cammino archetipico di negazione e impossibilità, salvo deviare improvvisamente compiendo l’unica scelta possibile per tornare al principio di tutto: lasciare andare ogni cosa, comprese le radici. Egli non esita ad abbandonare la famiglia che lo ha cresciuto, il paese in cui ha sempre vissuto, la bottega dove ha imparato il mestiere, per inseguire il sogno d’amore. In questo abbandono ha inizio la vera costruzione della sua identità, il suo essere altro rispetto a un futuro predestinato. Nella capacità di spostarsi per assumere una posizione diversa risiede l’unica estrema possibilità di confronto con ciò che si vorrebbe cambiare. Ma questo è anche il momento in cui il libro comincia a svelare l’identità della vera protagonista della storia, Concetta. Sua è la lingua che veicola il senso nascosto delle vicende narrate, il vernacolo. Suo il substrato storico esistenziale che, sotteso al racconto, costantemente si oppone alla libertà di Umberto: la convinzione di una colpa sociale originaria, espressa tramite un profondo senso di inadeguatezza nei confronti del mondo.
Da queste due opposti sentori, libertà e senso di colpa, indissolubilmente uniti dalle promesse nuziali, emerge lentamente il tema portante dell’intero romanzo: la fedeltà verso se stessi come unico mezzo per il riscatto della storia. Inseguendo il miraggio novecentista, incarnato dall’emigrazione, Umberto progetta il viaggio che lo porterà in America, immaginando un futuro che dimentichi il passato. Solo nell’altrove pare risiedere, per lui, la possibilità dell’ identità.
Non è un caso, forse, che il racconto lo veda partire da solo e cominciare a scrivere annotando ogni particolare, ogni pensiero, ogni sensazione, sempre rivolgendosi alla moglie. Le parole scritte a testimonianza di quanto vissuto, infatti, sembrano voler inaugurare una nuova memoria storica, collettiva perché condivisa con la moglie a cui si rivolgono. Il processo identitario appare giunto a maturazione, mentre la vita costruita in America dopo lo sbarco, in attesa dell’arrivo della sua famiglia, solo una conferma che nulla aggiunge al percorso compiuto fino a quel momento.
Ma il viaggio di Concetta sovrascrive l’interpretazione del senso del sé incarnata da Umberto.
La protagonista non viaggia da sola. Ha con sé i suoi figli, che portano il nome dei nonni, indossa le scarpe nuove confezionate da lui, simbolicamente evocatrici delle radici del percorso di ricerca identitaria, non scrive ma dialoga mentalmente con le parole che il marito le ha scritto. Si comprende come sia lei la depositaria della memoria storica collettiva, della cultura orale, del mondo rurale ottocentesco che stride con la modernità novecentesca degli americani che affollano le banchine di approdo delle navi per scrutare i forestieri. Lei sola può riscrivere e interpretare quella memoria contribuendo al riscatto. Solo quello che si conosce rende possibile il non conosciuto. Alla bambina nata sul suolo del nuovo continente Concetta darà il nome di Eleonora, come la vera madre di Umberto. Nominare significherà interpretare, per delineare lo spazio familiare come itinerario di coscienza, per prendere il testimone di un percorso che non sembra potersi esaurire, se non trovando compimento in una evoluzione della coscienza femminile. Dopo l’improvvisa morte del marito, Concetta deciderà di tornare nella sua terra d’origine, concludendo metaforicamente un processo dialettico che la vedrà inaugurare un nuovo viaggio per lei e per tutte le generazioni successive. Non parlerà più, nasconderà quanto scritto da Umberto fino alla sua morte, onorando con il silenzio della loro storia e l’interpretazione taciuta, la promessa nuziale fatta a quell’uomo perennemente in cerca di una libertà da consegnare ai propri figli. Questo libro è figlio di quella libertà lì. Della possibilità di scoprire le proprie radici contribuendo a piantarle.

Barbara Bellani

L’autrice
Nadia Verdile è nata a Napoli, vive a Caserta, le sue radici sono molisane. Scrittrice e giornalista, collabora con il quotidiano «Il Mattino». Ha sedici libri all’attivo e ha curato sette volumi didattici; molti suoi saggi sono stati pubblicati in riviste nazionali ed internazionali. Relatrice in convegni e seminari di studio, come storica, da anni, dedica le sue ricerche alla riscrittura della Storia delle Donne collaborando con la Fondazione Valerio per la Storia delle Donne, la Colorado State University per il progetto Female Biography Project, la Società per l’Enciclopedia delle donne. È direttrice della Collana editoriale «Italiane» di Pacini Fazzi Editore.

Copertina
La foto in copertina è di Lewis Hine, tra i più grandi fotografi sociali della storia, occhio narrante dell’emigrazione a cavallo dei due secoli.

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