La chiesa del Santo Patrono. La parrocchia di San Michele Arcangelo di Casagiove, da una descrizione del 1947

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I. Le origini assai “dubbiose”

Il parroco don Salvatore Mingione dava inizio alla sua “relazione” partendo proprio dalla storia del sacro edificio, affermando che “L’epoca della fondazione della Chiesa è(ra) sconosciuta”, tuttavia però, Casagiove esisteva come comunità (Casanova) “da prima del 900”, reputando che “fin da allora doveva esistere una Chiesa, originaria della presente”. Nonostante ciò, però, la Chiesa risultava “non consacrata” e il titolare era San Michele Arcangelo “Patrono anche di tutta Casagiove”.

 

II. Il sacro edificio

La chiesa era composta da “una navata di m. 26,80 per m. 10,30, a volta viva, con quattro cappelle, più altri due altari laterali”. L’edificio confinava “a sud col giardino Fiano, a ovest col Palazzo Cobianchi, a nord con La Congrega del Purgatorio e Via Jovara, a est Piazza S. Michele”. Le condizioni di statica, in quel periodo, apparivano “buone”, mentre, don Salvatore Mingione rammentava un ricordo davvero sorprendente, e cioè quando “In occasione del terremoto del 23 luglio 1930 vi furono varie lesioni non gravi”. Prima della venuta del parroco Mingione (avvenuta nel 1927), la manutenzione della chiesa “fu trascurata” tanto che don Salvatore Mingione “dovette incominciare subito col rifacimento totale del tetto, indi passare agli accomodi, affreschi, abbellimenti e decorazioni interne”. Prima della sua venuta, diceva don Mingione che la chiesa appariva “semplice, a due tinte senza quadri”. Le fasce perimetrali della chiesa erano caratterizzate da ben sette altari: quello maggiore dove veniva conservato il Santissimo Sacramento, quello dedicato alla Madonna del Buon Consiglio, quello dedicato alla Madonna del Rosario di Pompei, l’altare dedicato all’Immacolata Concezione, l’altare della Madonna del Carmine, l’altare della Pietà (indicato come cappella della famiglia Santorio), infine, l’altare dedicato a San Michele Arcangelo. Degli altari elencati, nessuno risultava consacrato e soltanto due erano invece “privilegiati”, quello maggiore e quello della Madonna del Buon Consiglio. Una volta, gli altari avevano “oneri e rendite”, ma dal 1866 colle leggi eversive, i beni furono “incamerati e fu costituito l’ente rette cappelle”, il quale in quel periodo era nelle mani dell’Ente Comunale di Assistenza (ex Congrega di Carità). Dal punto di vista dell’ordine, invece, tutti gli altari erano “bene puliti ed ornati” ed avevano pure “le tre tovaglie liturgiche”, tranne quello della cappella Santorio che, a quanto pare doveva apparire trascurato. Sul lato sinistro della chiesa si ergeva “maestoso” il campanile sormontato da “due campane: la più grande di m. 0,90 di altezza – diametro m. 0,82, la più piccola altezza m. 0,70 diametro m. 0,47”. La manutenzione della chiesa prima era “a carico del Comune”, ma il parroco precedente don Raffaele Mezzacapo “non curò farne valere i diritti”  tanto che il Comune dava soltanto “qualche contributo solo per le manutenzioni straordinarie”. Alla chiesa erano state, nel tempo, annesse alcune indulgenze che potevano essere acquisite dai fedeli in determinati periodi dell’anno. Queste indulgenze si riferivano all’altare maggiore in data 27 agosto 1839 e all’altare della Madonna del Buon Consiglio in data 19 dicembre 1924 ed entrambi gli altari erano stati “dichiarati privilegiati in perpetuo”.

 

III. La casa canonica

Come ogni chiesa parrocchiale, anche quella di Casagiove possedeva la canonica dove, in genere, dimorava il parroco pro tempore. La casa parrocchiale, affermava don Salvatore Mingione che venne donata da monsignor Carlo De Caprio (il quale era stato vescovo della diocesi di Sessa Aurunca) nel 1884. Questa confinava a sud con le proprietà Mingione – Martusciello e Piazza San Michele, a ovest col vico 3° Jovara, a nord con la proprietà Buono e a sud con la proprietà Fiano. Per quanto riguardava la staticità e la manutenzione dell’edificio, affermava don Salvatore che “molto fu fatto” da lui parroco, anche se “molto ancora occorre(va)”. L’abitazione si componeva di “ventisei vani ed accessori, cortile, condomini, niente giardino o orto”, mentre, al suo interno avevano dimora il parroco e i familiari, pur “avendo vari inquilini” ed essendo “adibita per opere parrocchiali”.

 

IV. Il corredo iconografico della chiesa

Il culto verso i santi nella chiesa di San Michele Arcangelo era accentuato dalla presenza di ben due reliquie: una di sant’Anna e l’altra di santa Rita da Cascia, entrambe “autenticate e conservate dal Parroco”. A primeggiare c’era, senz’altro, il grande quadro posto sull’altare maggiore “in tela ad olio”, raffigurante la Madonna delle Grazie con sotto le Anime del Purgatorio e ai lati san Michele Arcangelo e san Sebastiano martire, datata “dell’anno 1609”. Ad arricchire però il corredo artistico della chiesa era la presenza di un numero considerevole di statue, tra cui, la più importante quella raffigurante san Michele Arcangelo, opera lignea del 1718 dello scultore di origini venete ma operante a Napoli, Giacomo Colombo. Vi erano poi le statue dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, la statua di santa Teresa di Gesù Bambino “in cartone romano”, dell’Immacolata Concezione “in legno”, della Madonna del Carmine in cartapesta, quella di santa Rita da Cascia scolpita nel 1930 “in legno e cartone romano” dagli scultori Gennaro Cerrone e Francesco Savarese, con bottega nel popolarissimo quartiere napoletano di San Gregorio Armeno, quella lignea di sant’Anna . Infine, nella chiesa parrocchiale erano oggetto di culto altre statue di cui però, allo stato attuale se ne sono completamente perse le tracce: quella di san Francesco d’Assisi, quella di san Domenico di Guzman, quella di san Ciro medico e martire, quella del Crocifisso “e tutto il gruppo del Calvario” (i due ladroni, l’Addolorata, san Giovanni evangelista, santa Maria Maddalena, Gesù morto). Vi era poi una statua di Gesù Risorto, di san Giuseppe “in carta pesta” (sostituita con quella attuale in vetro resina), della Beata Vergine con abiti “in stoffa”, un mezzo busto di santa Lucia vergine e martire “in legno”. Oltre alle sculture, neppure i quadri mancavano all’appello: quello raffigurante la Madonna del Buon Consiglio, quello della Pietà, quello della Madonna del Rosario di Pompei, quello di san Giovanni Bosco, quello di sant’Antonio di Padova, quello di san Carlo Borromeo, quello dell’Ultima Cena “in tela pittato ad olio”. C’erano, poi, i vari affreschi realizzati dal 1928 al 1930 dal pittore giuglianese Raffaele Iodice “in tutta la Chiesa”, e i quadri della Via Crucis “pittati ad olio sulle mura delle colonne”. Il corredo della chiesa, non si limitava, però, soltanto alla presenza di statue e dipinti vari, ma altri accessori, in qualche modo, lo arricchivano. Per esempio, l’organo che accompagnava le solenni celebrazioni col suo suono, il quale però, in quel periodo si trovava “in cattive condizioni” e che in parte venne fatto riparare nel 1934 dallo stesso don Salvatore Mingione. Per il sacramento della riconciliazione (confessione) i confessori insieme con i fedeli prendevano posto presso tre confessionali “in perfetta regola”. Le omelie, invece, venivano predicate sul pulpito “in buone condizioni fisso al muro”, mentre ve ne era un altro piccolo che però si trovava “non in buone condizioni”. Due erano gli inginocchiatoi a disposizione dei fedeli, quattro banchi compresi di inginocchiatoi per il popolo erano stati fatti su committenza del parroco Mingione. I fedeli prendevano, in genere, posto sulle sedie “prima di proprietà del Sacrestano”, ma poi di proprietà del parroco. Per potersi sedere, infatti, i fedeli elargivano un’offerta i cui proventi andavano proprio al sacrestano. Nella zona absidale vi era un tappeto grande per l’altare maggiore, che venne acquistato da don Salvatore Mingione per circa 30,000 Lire.

 

V. Il ministero di don Salvatore Mingione

Il ministero attuato dall’allora parroco don Salvatore Mingione, certamente, non poteva ritenersi quello svolto dagli attuali parroci, soprattutto in virtù della mutazione dei processi sociali e religiosi che, nel tempo, si sono susseguiti. Per iniziare, il catechismo ai più piccoli, generalmente si svolgeva la domenica, mentre, nel corso della Quaresima, questo si faceva a tutte le fasce d’età. Durante il suo ministero sacerdotale, don Salvatore non tralasciò, come da buon cristiano, l’aiuto verso i poveri che, a quanto pare, aiutava personalmente, mentre, “con altre offerte” si stava, in quel periodo, “costituendo un capitale di lire quattrocentomila, per la fondazione di un ospizio”. Nel suo ministero, però, don Salvatore veniva aiutato anche dalle missioni popolari, la cui ultima missione era stata quella celebrata dai padri Passionisti nel marzo 1946 e che, in qualche modo, accrebbero la spiritualità nei fedeli casagiovesi. Dall’altare, come pure in privato, il parroco “promuove(va) le vocazioni ecclesiastiche pronto anche a sostenere i chierici poveri”, tanto che per questi ultimi aveva “fondato due borse” (di studio). Don Salvatore Mingione cercava, in ogni modo di arginare “la bestemmia e il turpiloquio”, attraverso i discorsi pronunciati dall’altare “e con l’incitare le varie associazioni al buon costume e alla moda decente”. Il parroco combatteva la “procacità della moda” attraverso i discorsi proclamati dall’altare e incitando le varie associazioni cattoliche. Ad aiutare il parroco, come “inserviente”, o meglio come “sacrestano”, c’era il signor Antimo Fiorillo classe 1887, il quale, veniva retribuito attraverso il ricavato dal fitto delle sedie in chiesa e da altre offerte ricavate dalla sacre funzioni “come è(ra) consuetudine”. Il sacrestano, inoltre, era addetto all’apertura e alla chiusura del sacro edificio giornalmente: in particolare, la chiesa nei giorni festivi si apriva “prima dell’Ave Maria, fino dopo mezzogiorno”, si riapriva poi “verso le 14 e si chiude(va) dopo la funzione serotina”. Pur tuttavia, il signor Fiorillo, nelle sue mansioni risultava che “non è(ra) assicurato”.

(Il parroco don Salvatore Mingione)

 

VI. Le manifestazioni di culto

Certamente la festa più importante era quella del patrono di Casagiove, san Michele Arcangelo, la quale si celebrava “la domenica successiva al 29 settembre, con novena, triduo, panegirico a spese del Parroco, Processione ed altre esteriorità col concorso del popolo”. Sul conto della festa patronale, il parroco Mingione affermava che “una volta l’ex comune di Casagiove contribuiva con quaranta ducati”. Altre manifestazioni di culto riguardavano pure “le processioni del Corpus Domini, della ottava e del Calvario il Venerdì Santo e le rogazioni”. Nel periodo di Carnevale si tenevano le Santissime Quarantore con Il Santissimo Sacramento esposto alla pubblica adorazione, seguivano poi gli Esercizi Spirituali, l’adorazione al Santo Sepolcro il giovedì santo, l’agonia di Nostro Signore Gesù Cristo il venerdì santo, il mese di maggio dedicato alla Madonna, il settenario e funzione dei defunti, la novena dell’Immacolata Concezione, la novena del Santo Natale, il Te Deum di capodanno “e altre novene minori tutte a cura e spesa del Parroco e col contributo dei fedeli, mai sufficiente”. Don Salvatore lamentava, infatti, che per la Quaresima e la festa del Santo Patrono il comune “dava quaranta ducati e quaranta ducati”, ma “da circa quaranta anni nulla più”. Altri culti sentiti dai fedeli casagiovesi erano quelli verso la Madonna del Buon Consiglio e verso la santa dei “casi impossibili”, santa Rita da Cascia, di cui la prima veniva omaggiata tramite “Novena, triduo e panegirico”, mentre la seconda, con le stesse modalità anche se “a cura di due devote”. Assai sentita era poi, la solennità del Corpus Domini, alla quale erano obbligati a partecipare tutti: “il clero, le confraternite e le pie associazioni del paese”, con l’intervento pure delle autorità civili. Anche alla processione del patrono, san Michele Arcangelo, erano, in realtà, “obbligate le confraternite del paese”.

 

VII. Il clero casagiovese

C’è da dire, senza alcuna smentita, che in quel periodo Casagiove poteva ritenersi un centro di primizie spirituali. Nella giurisdizione della parrocchia di San Michele Arcangelo dimoravano, infatti, non pochi religiosi. Il parroco della chiesa micaelica era, appunto, don Salvatore Mingione “fu Luigi di anni 52 anni” nato a Casagiove, il quale in età giovanile studiò ai Salesiani e al Liceo “Giannone” di Caserta e poi, i quattro anni di Sacra Teologia nel Seminario arcivescovile di Capua ottenendone successivamente la laurea. C’era poi, il reverendo don Pasquale Vitale “fu Francesco di anni 72” nato a Casagiove, il quale studiò presso il Seminario capuano ed aveva “la Graduatoria Curata di S. Michele Arcangelo”. Don Pasquale Vitale divenne cappellano curato della chiesa di Santa Maria Lauretana di Montecupo ed anche padre spirituale dell’Arciconfraternita del SS. Rosario e Anime del Purgatorio. Don Salvatore, possedeva, certamente, un bel caratterino, anche se spesso “lamentoso”. A tal proposito, infatti, il parroco Mingione, neppure verso il sacerdote coadiutore della parrocchia esprimeva parole tanto di riguardo. C’ è da dire che, oltre al titolo di Beneficio Parrocchiale, c’era pure il titolo di Coadiutoria Curata di San Michele Arcangelo, “con beni e rendite proprie”, di cui era investito l’anziano sacerdote don Pasquale Vitale. Il coadiutore avrebbe dovuto, appunto, coadiuvare il parroco, ma, secondo don Salvatore Mingione, il sacerdote don Pasquale Vitale “nulla fa(ceva)”, nonostante il parroco Mingione, più volte, si fosse rivolto alle Superiori Autorità. Ad ogni modo, il parroco Mingione, pur avendo un coadiutore “di diritto e riconosciuto dalle leggi”, di fatto non lo aveva, e questo fatto lo costringeva a portare il “pondus diei et aestus” (“il peso della giornata e il caldo”) della comunità parrocchiale così come delle Associazioni, moltiplicando in questo modo il lavoro, affinché tutto fosse andato per il verso giusto, addirittura chiedendo offerte in denaro per farsi aiutare, mentre il coadiutore don Pasquale Vitale, affermava don Salvatore Mingione che, in realtà, “intasca(va) le rendite senza nulla fare”. C’erano anche i cugini Mingione, tutti e tre sacerdoti: don Francesco Mingione parroco della chiesa di Santa Maria della Vittoria in Coccagna, don Domenico Mingione canonico del Capitolo della Cattedrale di Caserta e don Michele Mingione parroco della chiesa di San Francesco di Paola in Caserta. Questi religiosi risiedevano nel territorio parrocchiale, ma, a dire di don Salvatore Mingione “non  collaborano e sono di danno”. Altri sacerdoti casagiovesi, invece, risiedevano altrove: don Salvatore Mingione (omonimo del parroco di Casagiove) “fu Antonio” che era abate curato della chiesa abbaziale di San Martino vescovo in Macerata Campania, don Ciro Santoro “di Luigi” salesiano, don Salvatore Mazzitelli “di Nicola” missionario di monsignor Daniele Comboni (Comboniani), frate Mario Crocco “fu Agostino” dell’Ordine Francescano Minore “missionario in Cina”, don Giuseppe Menditto “ex Parroco di Curti a S. Prisco”, don Giuseppe Perrinella “di Antonio” salesiano. A dare un contributo fattivo, specialmente a livello sociale, nella comunità casagiovese era la presenza delle Suore degli Angeli “con otto componenti”: suor Giuseppina Garna “superiora”, suor Nicolina Mongiello, suor Modestina D’Arezzo, suor Claudia Gravina, suor Ausilia Romano, suor Lina Pugnasat, suor Elodia De Filippo, suor Fiorenza D’Agnese. A coadiuvare le suore c’erano due signore, Erminia Di Maio e Lina Ferrante. Le suore svolgevano prevalentemente l’insegnamento ai bambini dell’Asilo infantile sito in Piazza degli Eroi, senza tuttavia trascurare “le opere di carità” e le altre “opere assistenziali”.

 

VIII. Un volo pindarico: don Giuseppe Perrinella, testimone della strage delle Fosse Ardeatine

Davvero pochi, a Casagiove, saranno a conoscenza del fatto che il padre salesiano don Giuseppe Perrinella fu, durante il Secondo Conflitto Mondiale, testimone della terrificante strage nazista delle Fosse Ardeatine a Roma. Questa tragedia nella tragedia si consumò il 24 marzo 1944, a seguito dell’attentato perpetrato ai danni delle milizie tedesche in via Rasella a Roma. Come è noto, la regola era sempre la stessa: “per ogni soldato tedesco ucciso, dieci italiani uccisi”. Accadde, infatti, che alcune staffette tedesche “bloccarono via Ardeatina agli incroci con l’Appia e, più giù, con via Sette Chiese” e, improvvisamente, lungo la strada iniziò a snodarsi “un corteo di automobili e camion con ufficiali nazisti e prigionieri, tanti, catturati in via Rasella”. Giunti presso le cave dell’anerario ardeatino, tutti i prigionieri, furono “trascinati nelle fosse”, e a quel punto, un sacerdote salesiano, di nascosto, vide i nazisti “con i mitra spianati e l’ira terribile sui volti e sulle svastiche che portavano sul petto grigioverde”. Successivamente al terrificante massacro, i militi nazisti per cercare di occultare le prove, fecero esplodere delle mine. Il crollo dei cunicoli poteva occultare si i cadaveri, ma non il terribile odore che, dopo alcuni giorni, dai corpi delle vittime incominciava a fuoriuscire. Nelle vicinanze del luogo in cui si era consumato il tragico evento, erano situate le catacombe di San Callisto dove prestavano servizio i padri salesiani, e proprio questi ultimi pensarono bene di andare alla ricerca di un pozzo “per penetrare nelle cave”. Il gruppo di ricercatori era guidato dal casagiovese salesiano don Giuseppe Perrinella, il quale, “scoprì nella parte alta della collina di detriti, un foro con la scala a innesto che permetteva di scendere alle gallerie”, ma il fatto, per così dire, ancor più sconcertante fu quando, calandosi nel cunicolo, il gruppo di persone insieme con don Giuseppe, scoprirono di non essere stati i primi a calarsi in quel luogo “putrido”, perché nelle cave “piene di cadaveri”, incontrarono un giovane di nome Nino Gallarello che, disperato, andava in cerca del padre.

 

IX. Il popolo

Riguardo al popolo, don Salvatore diceva che gli abitanti residenti nella giurisdizione parrocchiale di San Michele Arcangelo erano “circa tremilaseicento”, con una media annuale dei nati “novanta”, dei morti “cinquanta” e dei matrimoni “venticinque”. A Casagiove c’erano e ci sono ancora quattro chiese parrocchiali, due nel territorio della diocesi di Caserta, Santa Croce e San Francesco di Paola (anche se nel territorio comunale di Caserta) ed altre due nel territorio dell’arcidiocesi di Capua, San Michele Arcangelo e Santa Maria della Vittoria in Coccagna, e il parroco Mingione affermava che a Casagiove anche se si celebravano un totale di “sei messe e alle volte sette festive”, non era tuttavia possibile fare un calcolo esatto di coloro che partecipavano alla messa soprattutto festiva, in quanto, molti uomini “artigiani o imprese” frequentavano la vicinissima Caserta, come pure i paesi limitrofi. Pertanto, il fatto che la maggior parte della popolazione casagiovese si recasse altrove per assaporare la Parola, secondo don Salvatore Mingione, “divide(va) il popolo” non mantenendo, in questo modo, “l’unità e porta(va) scompiglio”. Però, nella totalità il reverendo Mingione riteneva, con un sospiro di sollievo, che la messa festiva “è(ra) quasi generalmente ascoltata il precetto di Pasqua è(ra) in gran parte osservato”. I fedeli, sempre a dire di don Salvatore, durante la celebrazione eucaristica mantenevano un contegno “modesto e attento”, anche se le catechesi erano “scarsamente frequentate”, così come le prediche che, alcune di esse erano “frequentate, altre poco”. Pur provando, in qualche modo, la Fede, tuttavia, come per la maggior parte dei meridionali, anche il popolo di Casagiove era preda delle “solite comuni superstizioni”, e in più, si era messa anche la guerra che, a quanto pare, aveva creato nell’animo popolare “indifferenza e apatia ed altre conseguenze”. Le persone, per la maggiore, passavano il tempo libero leggendo “giornali di tutte le tendenze”, ma provvidenzialmente circolavano anche gli “opuscoli religiosi vari e romanzi specie della numerosa gioventù studentesca”. Nella parrocchia di San Michele Arcangelo, tra i problemi sociali, c’erano pure le “unioni illegittime” di cui, se ne contavano soltanto tre.

 

X. La circoscrizione territoriale parrocchiale e le cappelle extraparrocchiali

Il territorio “spirituale”, nonché proprio geografico della parrocchia di San Michele Arcangelo in Casagiove, “confinava a Est con quella di S. Croce (Caserta)”, specificando, tra l’altro, che alcuni palazzi pur essendo più vicini alla chiesa parrocchiale di Santa Croce, rientravano tuttavia nella giurisdizione ecclesiastica della parrocchia di San Michele Arcangelo. Si trattava, nello specifico, del “Palazzo Silvagni – Minervini di Via Breveretta”, come pure, i palazzi “Santonastaso – Altieri – Commune – Forquet di Via S. Croce”, compreso “l’ex Padiglione militare a Sud di quello Forquet”. Il territorio parrocchiale di San Michele Arcangelo, confinava a Sud, sempre con la parrocchia di Santa Croce “e restante terreno di Casagiove fino alle strade comunali Caserta – Recale – Casapulla”. Dalla parte di Ovest, invece, il territorio parrocchiale confinava con la “Parrocchia e Comune di Casapulla”, mentre, a nord con l’alveo Marotta, dove, appunto, inizia la giurisdizione della parrocchia di Santa Maria della Vittoria di Coccagna. Nel territorio della parrocchia di San Michele Arcangelo, erano, all’epoca, ubicati alcuni luoghi di culto “privati”. C’era l’oratorio semipubblico delle Suore degli Angeli, “ove si conserva(va) il SS. Sacramento”, l’oratorio semipubblico della Arciconfraternita di San Michele Arcangelo (vulgo San Vincenzo dé Paoli), l’oratorio semipubblico della Congrega del Santissimo Rosario e delle Anime del Purgatorio (accorpato alla chiesa di San Michele e ubicato nei pressi del “Trivice” tra via Jovara e via Luigi Castiello), la chiesa dell’Addolorata delle famiglie Fiano – Lillo, l’oratorio semipubblico della famiglia Pepe, l’oratorio privato della famiglia Forquet sito in via Santa Croce, il quale, però, già all’epoca risultava essere “sempre chiuso”. Don Salvatore Mingione, però, nei riguardi di questi oratori “privati”, non esprimeva parole tanto positive, perché a suo dire, essi non facevano altro che creare intralcio alle “funzioni parrocchiali, allontanando i fedeli, dividendo il popolo”, tanto da distruggere “l’unità tanto necessaria in una Parrocchia”, perché in fondo, i proprietari di detti oratori agivano “arbitrariamente, senza neanche avvisare il Parroco e senza direttiva fissa”.

 

Fonti

  • Archivio storico arcivescovile di Capua, Visita Pastorale di monsignor Salvatore Baccarini, Parrocchia di San Michele Arcangelo in  Casagiove, anno 1947.
  • Antonio Marotta, I giorni dell’ira, Caserta 1998.

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