Bosco (Uil): l’inutilità dell’abolizione delle Province

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Benevento, 28 aprile 2019. “Vogliamo dare i servizi ai cittadini. Se i Comuni non riescono a farlo, servono le Province. L’abolizione delle Province è una buffonata di Renzi, che ha portato disastri soprattutto nelle scuole e alle strade”, è questo il pensiero del Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, vecchio appena di un giorno!

“L’abolizione delle province – spiega Fioravante Bosco, segretario generale aggiunto della Uil Avellino/Benevento – avrebbe comportato, secondo l’Upi (Unione delle province italiane) risparmi marginali. Difatti, il costo annuo delle province era pari, nel 2013, a circa 12 miliardi di euro, anche se 6 miliardi non sarebbero stati facilmente comprimibili poiché trattavasi di rimborsi di prestiti e spese per la manutenzione del patrimonio immobiliare. Seppur vi fosse stata la dismissione di parte di esso, non si sarebbe ottenuto molto, a meno che non si pensava di vendere edifici scolastici e strade. Quanto al personale, spesso è stato trasferito per mobilità da altre amministrazioni ed è stato chiamato a svolgere le nuove funzioni attribuite dalle leggi Bassanini. Insomma, al massimo, da una sciagurata abolizione delle province, si sarebbe potuto raccattare un risparmio di 2 miliardi e mezzo di euro l’anno.Ricapitolando, le province spendevano circa 12 miliardi di euro l’anno, dei quali circa 8 miliardi e mezzo per spesa corrente, circa 3 miliardi per spese in conto capitale e poco più di mezzo miliardo per rimborso di prestiti. Si trattava, comunque, di spese con trend decrescente dal 2008. Pensare che si sarebbero potuti tagliare di colpo 10 miliardi, ha portato a illudersi che abolite le province, la spesa poteva limitarsi a finanziare il solo costo del personale. Le cose, per la verità, sono un po’ più complicate. Prima di tutto perché non è possibile azzerare la spesa per il rimborso dei prestiti: aboliti gli enti, qualcuno avrebbe dovuto pur accollarsela, per evitare di cagionare danni ai creditori. La spesa in conto capitale, a sua volta, sarebbe stata molto più difficile da ridurre. Essa è in larghissima misura dovuta a interventi di manutenzione, ampliamento, ristrutturazione e gestione dello sterminato patrimonio immobiliare, composto da 125mila chilometri di strade e da circa 5mila edifici scolastici. Anche se si fossero abolite le province, queste spese dovevano essere sostenute d qualcun altro! L’idiozia è stata quella di mettere mano alle province senza rivedere nel suo complesso tutto l’ordinamento delle autonomie locali, discussione che avrebbe imposto un dibattito pubblico che non c’è stato. Quali funzioni delle province potrebbero essere trasferite a un comune di 200/300 abitanti, o anche di 3.000/5.000 abitanti? Anche unendosi in nuovi enti territoriali (le unioni dei comuni), questi piccoli comuni non avrebbero mai le strutture tecniche e amministrative per farsi carico di funzioni così complesse. Le conseguenze sono state, sino a oggi, disastrose perché la provincia risponde alla logica di collegare in una sola entità amministrativa decine o centinaia di comuni minori con una città media o grande che ne è il capoluogo.Comunque sia, spiegata l’inutilità dell’operazione ‘abolizione delle province’che tendesse a risparmiare risorse, l’esperienza di questi ultimi anni dice che avremmo dovuto abolire le regioni o, perlomeno, ridimensionare il loro spropositato potere. Le regioni a statuto ordinario sono nate nel 1970 con l’attuazione degli articoli 117 e seguenti della Carta costituzionale, quali enti pubblici territoriali dotati di sovranità derivata, con funzioni proprie, delegate e ripartite. L’intento era quello di creare un decentramento amministrativo sotto il profilo dell’autonomia finanziaria, amministrativa e legislativa, alleggerendo il pesante apparato statale. Sta di fatto, però, che col passare degli anni le regioni sono diventate 21 piccoli stati in un piccolo Stato, qual è pur sempre l’Italia per la sua dimensione territoriale. Molte volte le previsioni in astratto cozzano con la realtà che è diversa dalle belle idee. Le regioni, diventate carrozzoni inutili e inservibili, costano miliardi di euro l’anno e non producono risultati apprezzabili per i cittadini. Sicché, una riforma seria di tutto il tessuto istituzionale della Repubblica italiana dovrebbe prevedere la riscoperta dello Stato nazionale, con una nuova riforma del titolo V della Costituzione, e un funzionale decentramento amministrativo da assegnare alle province. Queste ultime meglio riuscirebbero a svolgere quel ruolo di amministrazione delle esigenze dei cittadini, che è venuto meno nella quasi totalità dell’esperienza regionale. La Uil si augura che l’affrettata decisione renziana di abolire le province rientri completamente con il ripristino dei finanziamenti per il loro funzionamento nella stessa misura prevista prima della sciagurata legge Delrio. Le province, che possono considerarsi il collante del territorio, ai fini dell’espletamento di funzioni fondamentali, quali la manutenzione delle strade e delle scuole, devono ritornare a svolgere servizi importanti a favore dei cittadini, che non possono essere eliminati senza una credibile e plausibile alternativa”.

Insomma, quando Luigi Di Maio, leader del Movimento Cinque Stelle dice: “Per me le Province si tagliano. Punto. Ogni poltronificio per noi deve essere abolito. Efficienza e snellimento: questi devono essere i fari. Questa è la linea del M5S”, sbaglia di grosso. Matteo Renzi, fortunatamente scomparso dalla circolazione, dopo il disastroso esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, commise lo stesso errore.

“Il poltronificio – prosegue Bosco – è rappresentato dagli inutili 1111 consiglieri regionali italiani, dalle centinaia di assessori regionali, dalle migliaia di portaborse e consulenti regionali. Aver dato la competenza alle regioni sulla sanità, sul trasporto pubblico locale, sui servizi socio-assistenziali e sulle tante materie concorrenti con la legislazione statale, è stata una delle scelte più scelerate che potessimo augurarci. Per non parlare della fuga in avanti di una dozzina di regioni che chiedono ancora più autonomia dallo Stato su alcune materie, tra le quali la derelitta sanità, rovinata proprio dalle fameliche fauci regionali!”.

“Vi sarebbe ancora il tempo per ripensare – conclude Bosco – a una struttura dello Stato e delle sue diramazioni costituzionali più leggera ed efficiente, magari togliendo la gestione delle risorse alle regioni a trasferendole alle province, che potrebbero meglio intervenire sul Territorio per far fronte alle effettive esigenze dei cittadini. Sembra utopia per ciò che è stato sinora determinato, ma secondo me la sola strada che possa aggiustare i conti dello Stato e dare una speranza di salvezza alle piccole realtà, specialmente nel Mezzogiorno d’Italia”.

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